Care Donne… vi scrivo

Care Donne… vi scrivo

Durante >i circoli al femminile, incontri tra donne che ci hanno visto insieme fino allo scoccare dell’estate, una delle pratiche condivise è stata quella di lasciar cadere il seme della femminilità in quella remota terra smossa dell’utero e, contemporaneamente, di seminare  il seme (o il bulbo) di un fiore amato in un vaso o nel giardino. Prendendosi cura della fioritura di quest’ultimo avremmo allo stesso tempo vegliato sullo sbocciare e esprimersi dell’altro.

Dalla testimonianza del processo è nata questa sorta di lettera alle “mie” donne.

Care Donne,

nessuna di voi mi ha narrato come e in che modo è fiorito il seme di quel fiore.

Se è fiorito e magari se sta ancora fiorendo. Se la siccità, il fradicio o che altro, hanno avuto la meglio. Ogni seme ha la sua stagione e, talvolta, salta un ciclo, magari due. Ogni fiore è unico nel suo sbocciare e nell’attendere il momento.

Quando dico nessuna rivolgendomi a voi, so che sta a me.

Il mio seme – una specie di grande margherita, pelosetta nelle foglie – è cresciuto florido, meglio sarebbe dire che è stato un verdeggiare di foglie. Poi agganciata dalla categoria della necessità che chiamo “altro di più contingente da fare” – l’ho trascurato. Ho trascurato di considerarlo come specchio del mio riposarmi, quieta sulla pancia, a cuor sereno. Ho accelerato. Tuttavia non l’accelerare piuttosto il distogliere lo sguardo l’ha accantonato.

La pianta è cresciuta in modo stenterello, affrontando il vento impetuoso e il calore, innalzandosi, tuttavia, verticale come un fuso.

L’ho innaffiata, certo, all’inizio fin troppo, annegandone qualche butto. L’ho lasciata poi nel vaso, con poca terra, senza ascoltare la richiesta sommessa di essere trapiantata, di essere adagiata nel vasto terreno solido e ampio del grembo grande del giardino. Così distrattamente innocuo, sembra, il rifiutare e il perdere il contatto con la terra, con la madre, in noi. È un po’ come tagliarsi le gambe, senza saperlo.

Tuttavia la forza di farlo meglio e diversamente arrivava fin lì. Intervenire massicciamente, avvertivo, non era parte del gioco. Sarebbe stato agire il controllo piuttosto che rimanere con la pur scomoda testimonianza.
Guardando la pianticella, talvolta visibilmente denutrita, e ascoltandomi dentro – in quella calcinata ostinazione – nel silenzio della pancia, nell’abbraccio inclusivo del cuore, ho detto sì a quel modo di manifestarsi, di parlare di me. Ho atteso, senza voler cambiare un pelo del suo-mio modo di sbocciare. Ho amato quel modo.

Ho detto sì alla possibilità che non sbocciasse ora. Sì al suo ritmo, alla vulnerabile capacità del seme, e sì anche alla mia, talvolta frettolosa attenzione – come una sorta di scettica abitudine alla distrazione.

Fermarsi a udire, sentire, vedere nella profondità del nostro recondito “palazzo ovarico” può essere imbarazzante, doloroso tanto quanto fonte di vitale forza ed esuberante fermezza.

Per evitare l’uno, scartiamo anche l’altro.
Eh sì, lo ammetto, in certo momenti ho voluto fortemente aggirare l’uno rinunciando all’altro.
E intanto la verticale possenza del lungo gambo di quella margherita, che ho – senza prenderla davvero sul serio – difeso per istinto dall’incalzare del vento e dal sole diretto, ha continuato a ergersi, superando i ripiegamenti da intemperie e mancanze.

Quando la scoprivo asciutta – dio solo sa quanto asciutta – avvertivo la naturale frizione a dar seguito a ciò che era necessario fare, sul momento – nutrirla con gli occhi, innaffiare, muovere la terra, lasciar scorrere l’acqua e far fronte all’erosione di quella pancia incredula, dubbiosa, dimentica del suo centro.

Fiorire è un travaglio mi sono detta, ma che forza, che lezione, quanta perseveranza di vita!

E quanta gioia nel poggiare a brocca, a tazza, a conchiglia le mani su mio ventre di donna e sapere ogni volta che basta prendere l’acqua della vita, innaffiare e poi attendere – rinunciando al controllo.

Chiudere gli occhi e lasciar scendere un sorriso, distillato nel cuore, in quel punto della pancia senza pretese.

L’ho poi anche concimata al naturale, con amore, ricordando nel frattempo di scendere nel punto di mezzo, nell’ombelico, all’ombra del cuore, sotto la custodia di quell’occhio interiore.
E oggi, ho visto un boccio, fiero ombelico al centro di una corona di poche ma ostinate foglie.
Fiorira? Chi può saperlo con certezza…

Intanto la fioritura sta accadendo.
E mi sento… FIORIRE!.

Vostra
Donna Elsa

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