Le costellazioni familiari non sono una tecnica

Le costellazioni familiari non sono una tecnica

Qualcuno mi ha chiesto di fare un riassunto dell’ultimo seminario (costellazioni familiari) degli Hellinger a Milano, lo scorso Dicembre. E questo è quanto mi son trovata a scrivere.

spaceQuesto potrebbe essere, in breve, il messaggio ai costellandi e ai partecipanti, che è giunto forte e chiaro dall’ultimo seminario con Bert e Sophie Hellinger a Milano, in occasione del dell’ottantanovesimo compleanno di Bert, età di matura e mirabile saggezza, in lui compiuta.

Il titolo Che faccio se…?, apriva alla possibilità di fare domande da cui poteva o non poteva nascere una costellazione. Magari un semplice esercizio o anche una sola frase-parola, oppure anche la possibilità, che niente, proprio niente fosse in grado di rivelarsi. E il coraggio di stare con questo “niente” è parte importante dell’incedere delle nuove costellazioni. Senza aggiungere o togliere, senza paura e progetto di dare a tutti i costi al cliente, quello che nella nostra pretesa di elargire e nella sua di ottenere, non può darsi.

Prendere appunti è quindi esplicitamente sconsigliato. Ciò che resta nel momento – come anche in questo in cui sto scrivendo – è quello che sono in grado di accogliere, quello che lo spazio in cui mi trovo può permettere, che sia un piccolo oscuro seme o il manifestarsi di una comprensione, che sia confusione – non è nelle nostre mani, come non lo è il movimento autonomo della costellazione stessa, nel caso prenda avvio.

Di questa fluida autonomia, che il lavoro delle costellazioni stesse sta guadagnando rispetto al tentativo di volerlo immortalare in una tecnica (o diverse tecniche), Bert Hellinger ha parlato aprendo il seminario. Ha trasmesso l’attitudine con la quale lavora. Non ha bisogno di chiedere, di guardare il cliente (vedere è accogliere con rispetto, non necessariamente mettere gli occhi addosso), di farsi un’idea – quello che è pronto a rivelarsi lo è indipendentemente da ciò che è esprimibile sul piano di coscienza personale del presumere, del raccogliere dati, del rifarsi a immagini e memorie.

L’elemento in gioco si da subito nel movimento di uno, due rappresentanti, che a loro volta possono, con il loro raccolto lasciarsi condurre, chiamarne altri in causa. Lo sguardo interno si amplifica – si percepisce – non è più solo un campo locale a entrare in gioco, ma qualcosa di infinitamente vasto, sotteso, che è gravido di energia e informazione non solo riguardo al lignaggio, alle generazioni ma anche relativo ad altre epoche, alle innumerevoli vite, prendendo i rappresentanti in sua balia.

Talvolta è un intervento breve, che si limita a una frase. Potrebbe sembrare fin troppo scarno, imprendibile – non c’è niente da prendere piuttosto da esser presi – eppure è potente come un laser. Il volto si trasforma, si distende, qualcosa si reintegra, torna a fluire. La mente annaspa nel tentativo di definirlo, per tornarsene quieta al suo posto, con la coda tra le gambe. Sono altri i sensi chiamati in causa, interiori. Al di là di ogni possibile nozione di bene e male, di giusto o sbagliato, di positivo e negativo, di qualsiasi aggiustamento. Oltre. Giocare a rimpiattino, cercare di farla franca rischia di essere un prendere-prendersi in giro. E come Bert, spesso ricorda, non si gioca con la vita e con la morte.

Acquisire, impadronirsi di una qualche nuova tecnica da aggiungere per affilare la prestazione con l’idea di portarla nella prossima sessione, gruppo con i clienti, non ha molto senso in questo nuovo modo di lavorare. È umano, ci si prova. Con scarsa intensità.

Non c’è alcuna tecnica da arricchire con spunti avanzati piuttosto il coltivare, nutrire quell’attitudine al non so, di nuovo e di nuovo. Pieno ascolto – con gli occhi (gli occhi ascoltano eccome, defocalizzati), con gli orecchi interni, con il corpo interiore – dell’altro e dell’Oltre a 360 gradi nel qui, nell’ora. Nessun pacchetto da portarsi a casa, nello studio, da aprire prontamente come l’ultima chiave funzionante dell’esperto. Un rotondo e quieto stare, attenti e abbandonati, senza necessariamente un tema esplicitato su cui prepararsi a lavorare appuntando matite già usate per riscrivere un qualcosa che con Bert e Sophie, quel giorno, ha funzionato.

Niente di più facile a dirsi. Una profonda e difficile disciplina dell’attimo da mettere in pratica. Può solo sgorgare senza essere volutamente agita. L’azione che ne consegue è data e sorprende, per primo, il facilitatore. Semmai c’è qualcosa da coltivare è uno stato, un’attitudine aperta a tutto, un’attesa, non una tecnica. Per questo la pratica della meditazione, del raccoglimento e della “lettura” dell’energia cosmica, proposti da Sophie si fanno terreno fertile di preparazione.

Sono mille le tentazioni di dimostrare, saltar su, soddisfare, arrivare al dunque, produrre un finale, addomesticare la drammaticità, dispensare sollievo, sottilmente convincersi, tenersi buono e stretto il cliente (e il suo portafoglio)… Le ho viste tutte in me, poi condivise durante il lavoro in piccoli gruppi, nello scambio di esperienze.
La maggior parte dei partecipanti erano operatori, con più o meno esperienza di lavoro sul campo a cui gli Hellinger hanno aperto il prezioso bagaglio della loro esperienza, compresi i loro “errori” nel VOLER aiutare, risolvere, mandare il cliente a casa contento. Si sono anche raccontati, in uno scambio maschile-femminile che ha arricchito gli animi di una trasmissione ricca, che gode della completezza degli opposti.

C’è stato anche il lavoro con il copione, ispirato all’approccio di Eric Berne e consegnato al movimento della costellazione. Tutti noi abbiamo una fiaba, un racconto, una filastrocca, un “ridetto” che i genitori hanno riversato nella nostra anima infantile – entro i primi cinque anni di età – su cui abbiamo costruito il nostro copione di vita. Vederlo svelarsi nella costellazione offre – se è dato – il passo per uscirne. Una preziosa opportunità su cui tuttavia non possiamo intervenire in modo volitivo. Di nuovo, rischia di essere vano portarci in saccoccia la formula, sollevati dal fatto che abbiamo la chiave, per sempre adatta a risolvere l’equazione. È un po’ come appesantirsi di un altro copione.

Ogni nuova costellazione è il dispiegarsi di un evento imprevedibile, è un’architettura di forze creative che provengono dall’invisibile e che ci prendono al loro servizio, rendendoci manifestanti partecipi.
Si è speso, quindi, senza portare a casa niente? Come, sollevando una leggera ilarità, ha detto un partecipante: «Ho fatto tanta strada, ho speso, per venire qua a farmi dire che devo radermi la barba?». Con un evidente ritrovato senso di dignità, tuttavia.

Eh sì, niente. 😉
Un dono molto prezioso, che è raro ricevere.

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Si narra che lo scrigno dell’alleanza fosse una cassa di legno che gli antichi ebrei portavano con loro nel deserto. Si dice che contenesse le tavole dei dieci comandamenti e, dopo la loro scomparsa, i rotoli della Torah. La cassa era collocata dietro una tenda, che solo il gran sacerdote poteva scostare per entrare.
Quando aprì la cassa e vi guardò dentro, non vi trovò niente. Era vuota.

Biblio utile:
>Verso nuovi spazi
>Aiuti alla vita

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