La dea Kali e le unghie smangiucchiate

La dea Kali e le unghie smangiucchiate

Riflessioni con l’avanzare dell’oscurità autunnale

La vera bellezza non è semplicemente rose e fiori e semplice avvenenza. La sfera della bellezza comprende il terrore, il timore reverenziale, la vastità, la confusione, la devastante intensità e l’indeterminata, incomprensibile oscurità senza forma (…) Lei ci cattura intensificando ogni manifestazione sensibile attraverso cui si rivela.
James Hillman, La giustizia di Afrodite

Che c’entra la dea con le unghie sbocconcellate di donne e uomini, soprattutto donne, adolescenti e adulte? Il polpastrello scoperto delle dita si mostra quale torturato ornamento delle loro mani.

E chi è questa Kali, scura, mitica, furente, terrificante e senza paura, da noi detta la Medusa, con un serpente per capello? Medusa la magnifica, condannata a mostro sibilante dallo sguardo geloso di Atena. Anch’essa donna, che fa le scarpe – anzi i capelli – a un’altra donna.

Da lì il proverbio: ha un diavolo per capello, nell’associazione del diavolo con il serpente e del serpente con il maligno e via andare… vecchia storia. Ed è anche vero che dipende da dove guardi. Il serpente – nella sua magnificente, allineata e poderosa verticalità è simbolo di cura, di risanamento, di risveglio.

E lo è anche al collo e sul petto dello sposo di Kali, Shiva, che si sotto-mette alla forza furiosa, selvatica, senza controllo della sua sposa – arginandola. Si fa cadavere sotto i suoi piedi e in altre narrazioni mitologiche si fa neonato, figlio – immagine che ammansisce la furia distruttiva, la forza primordiale della Madre – che è vita e morte. Dando l’una dona anche l’altra.

La testa della Medusa si erge ancora fiera e portatrice di terrore pietrificante nella mano vincitrice di Perseo che l’ha uccisa, bloccando il suo potere alla maniera del patriarca, con l’emisfero sinistro.

La Dea Kali, quella indiana, è lei che innalza a trofeo, indomita, una bella testa col baffo, mozzata e gocciolante in una delle sue innumerevoli braccia e se non bastasse ha una testa recisa (baffi intonsi), per ogni grano della sua lunga collana. E, per cintura, ha una lunga fila di braccia e/o dita delle mani. Mozzate. Direttamente, senza passare dall’unghia.

O quando va alla grande sono teschi, calcinati. E le teste ancor fresche di taglio (o di morso e strappo) pendono dalla cintura. La lingua scompostamente fuori, penzola nel fiero grottesco stupore, in alcune sculture lambendo il lingam, il pene del suo sposo.
In alcune delle poche immagini o sculture che ci sono pervenute anche la Medusa – dea delle nostre parti, fortemente declassata – mostra la lingua.

Quelle teste avrebbe potuto strapparle lei, Kali, con i sui denti, facendole cadere una ad una. Altro che unghie!
Morte viva! Madonna Nera. Devastante intensa bellezza.
Altro che buona educazione e compromesso! Altro che la sottile aggressività viperina che ti rende poco femminile. Quella è la carriera e la televisione.
La giusta ira, il mito, necessita uno sguardo diverso, senza emozione.

Anche per te uomo, al quale dicono che il non arrotar e alzar la spada, ti rende mollo. E nel frattempo ti arroti le unghie.
L’unica cosa che si alza visibilmente nell’immagine di Shiva, sotto il piede danzante di Kali – egli arreso fuori e guerriero invincibile dentro – è la testa piatta del cobra.

E le unghie smangiucchiate? Già, le unghie, quell’espressione di vitalità organica, di esuberanza di vita animale, che continuano a crescere oltre l’evento morte – senza più controllo alcuno.

In pienezza di gioventù mi mangiavo le unghie fino alla carne.Un giorno mi trovavo a camminare, con il mio ragazzo, per una strada di Dharamshala nel nord dell’India. All’improvviso un baba, da una finestrella di un mesto tempietto, ci fa cenno di salire. Magnetizzati saliamo, per trovarci in poco più di un antro oscuro. Appena gli occhi si abituano mi scopro sovrastata da una gigantesca e terrificante pittura della dea Kali, vivida in tutti i suoi oltraggiosi particolari.

I suoi occhi ardenti nei miei occhi. La sua forza nella mia forza. La sua ferocia nella mia ferocia. La danza della morte nella mia morte, l’eternità della vita nella mia vita. L’esuberanza magnifica della carne risvegliata nella mia carne… Da quel preciso istante ho smesso di rodere e le unghie hanno ripreso a crescere naturali e forti.

Poche ore o pochi giorni dopo ho incontrato a McLeodGanj – sede dei tanti tibetani in esilio – una donna di medicina, tibetana. Uscivo da una malattia ai reni – l’organo della paura – e sapevo che lei mi sarebbe stata di aiuto.

Fiera, radicata e penetrante – rimanendo nell’immobilità della postura del loto – ha usato le sue mani in modo repentino e vigoroso, come ferme pugnalate sul mio corpo.

Poi volgendo lo sguardo al mio ragazzo, in attesa oltre la vetrata, mi ha detto:
“Digli di usare molto, molto di più il suo flauto.”

E non si trattava certo di quello traverso d’argento, che lui amava molto suonare!
Sia benedetta Kali, colei che riconcilia con la morte. Sia benedetta la Madre nella sua pienezza. Così dolce!


Vieni, Madre, vieni!

Perché terrore è il Tuo nome,
La morte è nel Tuo respiro,
E la vibrazione di ogni Tuo passo
Distrugge un mondo per sempre.Vieni, Madre, vieni!
La Madre appare
A chi ha il coraggio d’amare il dolore
E abbracciare la forma della morte,
Danzando nella danza della Distruzione.

Ramakrishna

Comments

comments