L’imperativo della gentilezza

L’imperativo della gentilezza

Fate i bravi, siate gentili!

Un nuovo tormentone?
E poi ecco questo bearsi, sbavare, imbibirsi, comandare, promulgare gentilezza.

Questo farsi paladini della mansuetudine ha un che di sedazione, di piedi sempre fuori dal fango, di mani disinfettate, di santificata astensione da temporali, tempeste marine, sibili di brezza, mulinelli d’aria e risa sfrenate…

Fate i bravi. Trattenetevi.

Nessuna provocazione.

Nessuna posizione e giudizio

Trascesi, pii.

Sì, onoro la nostra dolce, amorevole natura, tanto cortese quanto onesta.
Giunge, tuttavia, in tale imperativo un sapor di distorsione, di malinteso con la bontà, col puntare all’esser bravi e in fissa, con la beota gentilezza – il nuovo calmante, il nuovo diffuso lubrificante.

Questa cortese, nobile natura, ha a che fare con il vero, con un nessuno che se ne fa credito. Questa gentile natura è “venire” da dove sono, ora, esprimere ciò che si rivela qui, fare dono di ogni clima.

Ancora e di nuovo, mi pare, l’amorevolezza è malintesa con la brava bontà, con l’addomesticamento, con l’obbedienza ai comandamenti, ai decaloghi.

Facciamo i bravi, con doverosa gentilezza.
Pezzi di pane, tutti core e mandolino, che fegato, visceri e patta son troppo umani.

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