Di Guerra e di Amore – a mia madre

Di Guerra e di Amore – a mia madre

Buon Natale cara, cara mamma

Dopo dieci anni torna potente e tenera l’immagine dell’ultimo Natale con mia madre. Sull’onda dei cicli si riaffaccia il suo raccontare, reiterato, dell’ultima guerra. La sua guerra.

Questo racconto – qui pubblicato in piccola parte – è nato a qualche anno dalla sua morte, onorando la sua memoria. Ha segnato, in un movimento impercettibile, la fine della nostra guerra. Quella a mia madre e a me stessa. Buon Natale cara, cara Mamma.

“La guerra a vent’anni incombe come un’ombra, con o senza sole, e, tuttavia, niente può sullo sbocciare delle forze vitali che premono nei giovani corpi.

La guerra a vent’anni, e anche meno, si stenta a crederla, preme, sradica dalle case, toglie il cibo, uccide ma quell’ebollizione di vita che sconvolge piacevolmente i giovani corpi spumeggia senza preferenze. Anzi si fa più acuta, quasi a indolenzire il riempirsi dei seni, l’arrotondarsi dei fianchi – che si fanno sensibili, percorsi da insoliti brividi che si confondono con quelli della paura.

Nell’altro sesso, si affaccia l’altero turgersi, imbarazzante, di quelle vulnerabili e intelligenti parti intime. Nella furia della guerra, nella rabbia, quella naturale sensibilità, schiacciata dall’aggressiva persecuzione del nemico – talvolta altrettanto giovane – si fa pressione sconvolgente, che va sedata, dentro qualche ventre, non importa quale.

Nonostante quella guerra insensata – e chi la capiva? Chi può capirla a vent’anni? – nonostante quegli stenti, gli occhi di Angiola erano quelli di una giovane donna che si apre ai misteri dell’amore e della vita. Occhi all’erta, come gli orecchi tesi a quei minimi rumori che anticipavano la contraerea, lo sganciamento delle bombe.

Il corpo è forte, quello setoso e inviolato della prima fioritura. Angiola ha ancora 19anni e spesso tocca a lei fare le fascine, cercare gli sciormenti per accendere il fuoco, tocca a lei passare la linea nemica talvolta. Una donna in boccio in un mondo dominato dagli uomini, perché questo è il panorama della guerra, l’invasione imprevedibile, premeditata e disperata di uomini soldato, giovani uomini arruolati per uccidere.

Prima di tutto giovani. Anche se quella gioventù passa in secondo piano, scorre turbolenta nei loro corpi, ignara di quello che è poi chiamato il secondo grande conflitto mondiale. Ci sono i pidocchi, che si annidano e prudono e, ci sono anche gli ormoni, vividi, palpabili e a differenza dei pidocchi, invisibili.

I primi bene o male puoi strapparli e schiacciarli. I secondi continuano imperterriti a solleticare, giù fino in fondo all’anima, passione e chimica angelica… Macché chimica, che ne sa una ragazza prepotentemente vitale nei primi anni della guerra del 42, che ha fatto le elementari?

La sua percezione era quella fine del ricamo, la piacevolezza quella dolce-delicata-pungente, percettibile dentro, della vita che palpita in ogni recesso del corpo. La sensualità della forza vitale che in modo imperativo chiama al sacrificio – compito sacro – della riproduzione.

Angiola, come ogni fanciulla in fiore, sente l’onda che teneramente la squassa ma con chi può parlarne? Il pudore è quello di chi ignora e si lascia vivere, in un tempo in cui vivere è ogni giorno, anzi, ogni momento, un’incerta scommessa. Come lo è sempre del resto ma senza tanta materica minaccia, quella delle mine in terra e dei rombanti uccelli che cagano morte dal cielo.

Quando incontrava qualche soldato tedesco – dio solo sa quanto giovane, magari aitante e con gli occhi di uno smarrito azzurro trasparente – camminando spedita per fare qualche scorta, per portare un po’ di grano a macinare al mulino, sfidava quel fucile spianato come spesso il coraggio immemore della gioventù sa fare.

Restavano sole a casa le donne, gli uomini erano inghiottiti dalla guerra e, nelle rappresaglie, dalla foresta.
Con fare fiero, combattivo, con il petto appesantito da quella nuova sensazione di due grevi gocce colme di amorevoli densità, si parava a distanza davanti al fucile alzato, come quegli animali inermi che attaccano da lontano sperando di spaventare il predatore e, con voce canora, urlava: « «E dai, su, sparami… e sparami, che aspetti?». «Se lo devi fare fallo subito».

Non so quanto fosse a conoscenza, che stava – in quel traboccare di seducente gioventù – sfidando l’uomo, più che il soldato. E il soldato la lasciava passare, accompagnandola con lo sguardo. 

Alla fine si trattava di un incontro tra coetanei che volevano vivere, vivere, vivere e giocare il gioco della vita e dell’amore, a dispetto di loro stessi e della guerra.

Ma erano incontri fugaci quelli. Il gioco magnetico di un’acerba, istintiva sensualità premeva inghiottito da un istinto ancor più forte, quello di difendersi. Il vivere aveva i sui ritmi scanditi dalle necessità strette della sopravvivenza, di quella della famiglia. C’era poco da indulgere.”

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