Lascio il lavoro. Sollievo e travaglio

Lascio il lavoro. Sollievo e travaglio

ufficio-redazioneSi tende a pensare che ciò che vorremmo lasciarsi alle spalle sia la causa del disagio vissuto, l’aspetto negativo del nostro inceppare. Oppure potrebbe esserlo – nella nostra immaginazione, la paura di ciò che ci aspetta. Nella mia esperienza entrambi legano alla situazione che vorremmo abbandonare.

La mia scoperta, lasciando qualche anno fa il mio lavoro ufficiale, è stata che ne ciò che stavo lasciando, ne quello che temevo nel futuro erano alla base del mio malessere fisico cronico e sue conseguenze, bensì il mancato ascolto di un moto invisibile ed esigente che si affaccia, sempre, nella verticalità del momento. Il rifiuto di viverlo è rifiuto della vita, un no alla vita, che viene dal profondo e da lontano.

Lasciare il lavoro ha coinciso con il ritrovamento della salute. Quel lavoro dunque, mi ha fatto ammalare? Persone negative stavano mettendo a dura prova la mia condizione di salute, come si tende a dire in maniera semplicista, diffondendo il nuovo credo dell’indottrinamento alla positiva felicità? No. Il non ascolto della nuova chiamata, presente da tempo, ha stretto le corde dei miei visceri.

Il sollievo, subito presente, ha coinciso con l’abbracciare quel moto, quella nuova chiamata verso il nuovo. Un sì, un semplice sì. Vulnerabile all’ascolto e alla chiarezza di tanto altro su cui il sì ha gettato luce. Un sì anche al no, alla paura, al fatto che forse non sarei mai riuscita a andarmene, a qualsiasi autocondanna. L’amore (in me) che mi vuole diversa non è amore.
Un’altro tassello su che cosa l’amore non è. Un nuovo travaglio, con rinnovato piglio e forza, poiché ogni nuova vita ne esige uno.

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