Che mestiere fai? Il “mio” manifesto

Che mestiere fai? Il “mio” manifesto

Ma tu, che mestiere fai?
No, quella spirituale non può essere una carriera come non può essere carriera la vera scienza, quella senza interesse, quella che serve. Lo dice anche il grande Preparata, in un bel video. Le due, la ricerca scientifica e la cosiddetta ricerca spirituale, hanno qualcosa d’importante in comune: la sperimentazione e l’indagine o investigazione, come volete chiamarla. Nella seconda, il laboratorio è il corpo. L’indagine è l’indagine di sé o auto-indagine. La scienza indaga un oggetto, la ricerca interiore il soggetto.

Quindi che significa, che devo farlo gratis? No. Anzi. Chi serve il pane nel panificio o la frutta al mercato è naturale che riceva un compenso. Il suo servizio è ben una prestazione utile. Tuttavia nella mentalità comune – materialista – non è quel momento di attenzione, con cui in modo accurato mi pesa le ciliege che vale il compenso, bensì il peso, la misura, la quantità.

Che mestiere fai, dunque? Servo, ai piani. Quelli di coscienza. 😀
Anche la parola counselor non mi hai mai convinto. Ancor meno l’espressione “relazione di aiuto” – sebbene bisogna pur specificare in qualche modo – dice qualcuno.
Mi chiedono: puoi aiutarmi? Tra me e me dico: io no, tu puoi aiutarti? Quale strumento è davvero importante in una relazione di sostegno(neanche sostegno mi convince)? Alcuni direbbero che è il facilitatore, il professionista. Sì, il facilitatore lo è per sé. Lo strumento più importante è chi si rivolge a me: tu per te.

Ecco, servo a questo, a ricordartelo. E a ricordarmelo. Tendo a dire che sono un educatore, a rigor di laurea – un educatore per adulti. E gli adulti si offendono. Abbiamo perso il senso della parola: portare alla luce risorse già presenti… a portarle sei tu. Ti accompagno se vuoi e il servizio è reciproco.

Accompagno e metto al servizio perché ho ricevuto molto e ho preso, pagando ogni volta un prezzo, non solo sotto forma di denari. Passo, a mia volta, ciò che mi è stato passato con cura, con devozione. Sebbene ciò che passa è ciò che sei, quello che sai è una scusa. C’è un momento in cui – nonostante abbia cercato di ritardarlo con tutte le forze – devi passare l’osso. Accompagnare. Come il ciclista davanti, in un momento di salita ripida. Taglio l’aria, per un momento, ma pedalare, ti tocca. Qualche volta lo scatto è tale che ti scopro a tagliarmi l’aria e, prendo fiato. Entrambi pedaliamo, in modo congiunto. Io per me e tu per te. Entrambi con la morte accanto, che fa il tifo 😉
L’intensità della vita erompe ogni volta che muore qualcosa in noi: un’idea, una credenza, un attaccamento, un: “io so”.

Grazie Bert Hellinger non fu facile per niente quella supervisione e la lezione è ancora in atto.

Se c’è un manifesto, questo è anche il mio. Qualcuno l’ha già scelto come tale e tuttavia amo rimandare alla fonte: “servire è differente dall’aiutare e dal riparare – Rachel Naomi Remen (Mar 18, 2013)
Nel termine accompagnare trovo risonanza:

Saper accompagnare 
Aiutare implica una disuguaglianza, non prevede un rapporto alla pari. Quando si aiuta, si usa la propria forza a beneficio di qualcuno che ne ha meno. E’ un rapporto dove una delle parti è in una posizione svantaggiata, e dove la disuguaglianza è palpabile. Ponendoci nell’ottica dell’aiuto possiamo inavvertitamente sottrarre all’altro più di quanto gli diamo, indebolirne il senso di dignità e l’autostima. Quando aiuto, sono chiaramente cosciente della mia forza.

Ma per servire dobbiamo mettere in gioco qualcosa di più che la nostra forza(sia essa il non giudizio, l’empatia etc. etc.. ndr) dobbiamo mettere in gioco la totalità di noi stessi, attingere all’intera gamma delle nostre esperienze. Servono anche le nostre ferite, i nostri limiti, perfino i nostri lati oscuri. La nostra interezza serve l’interezza dell’altro e l’interezza della vita. Aiutare crea un debito. L’altro sente di doverci qualcosa. Il servizio, al contrario, è reciproco. Quando aiuto provo soddisfazione; quando servo provo gratitudine.

Servire è inoltre diverso dal provvedere. Quando cerco di provvedere a qualcuno, vedo nell’altro qualcosa che non va. E’ un giudizio implicito, che mi separa dall’altro e crea una distanza. Direi quindi che, fondamentalmente, aiutare, provvedere e servire sono modi di vedere la vita. Quando aiutiamo, la vita ci appare debole. Quando cerchiamo di provvedere, ci sembra che abbia qualcosa che non va. Ma quando serviamo, la vita ci appare completa, e siamo consapevoli di fare da canale a qualcosa di più grande di noi.

La vostra cameriera, ai piani 😀

 

 

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