Aiutare in emergenza (e non solo)

Aiutare in emergenza (e non solo)

Note (sistemiche) mosse dalla recente alluvione in Romagna e dal desiderio di aiutare, non solo in circostanze di emergenza collettiva.

Aiutare, in senso visibile, gratifica. Dare una mano nel bisogno. Diamo per scontato che sia la giusta scelta sempre e per tutti.

Traspare talvolta – non in tutti gli aiutatori – una sorta di autocompiacimento, un mostrarsi, talvolta una puzzina al naso.😉  Quando, per es., sono colta da irritazione, fastidio, vedendo che mentre io – ripeto io – mi faccio il mazzo, qualcuno beatamente, con le mani pulite, beve il suo drink. Aiutare attiva quel sentirsi dalla parte giusta e con la coscienza a posto. Migliori.

Non farlo fa sentire – perlopiù – in colpa, anche se ci sono dei buoni motivi.
Giustificarli è parte della colpa e del sentirsi poco degni.

Aiutare – collaborare – è una sorta di equilibrio-coscienza morale organica, naturale, un impulso istintivo “giovanile” (ad ogni età) a cui è difficile non obbedire – egoistico(ops) in un certo senso. E qui magari fatico a dirmi in un modo che sia immediatamente comprensibile, a livello cognitivo.

Aiutare innesca, inevitabilmente, la soddisfazione di un me, il sentirmi utile. Il coprire delle aspettative collettive, poiché così si fa e così son ben accetto. Quando c’è bisogno, si aiuta, rendendoci utili. Ancor di più se non si è subito – temporaneamente – alcun danno.
Può alcun aiuto venire da chi non si dà da fare?

Il desiderio di apparire collaborativi è ciò, che, in ultima analisi, soddisfa il desiderio più profondo di sentirci ben accetti, di appartenere. La paura è quella di far fronte a una sorta di esclusione, alla colpa di non aver agito come la morale collettiva comanda. È la voce della buona coscienza, morale, a cui tutti – o quasi – rispondiamo per coprire un ingiustificato senso di colpa, tuttavia presente.

L’alternativa è far fronte, soli, a quel senso di colpa.
Peggio sentirsi soli e inutili che non in compagnia, uniti, all’azione-reazione dei più.
Il non collaborare, il non prestare aiuto è vissuto come un tradimento, una viltà per l’io. Ecco che scatta la leva dell’agire nel giusto, per il bene comune.

Collaborare, aiutare è in primis la “soddisfazione” del me.
Visto questo, aiutare o non farlo sono egualmente azioni inevitabili, senza qualcuno – un me – che se ne faccia carico, tuttavia.
Durante le costellazioni familiari è una benedizione “esser toccati” da questa evidenza.

Da parte mia – per ora – non ho voluto togliere neanche un briciolo di gloria a questi giovani aitanti romagnoli e di ogni dove. Giovani e meno giovani.
Conosco la fatica – fisica – e la gratificazione dell’aiutare.

Ho dalla mia anche una buona ragione ma non la saprete mai.
Perfino il Lions Club ha fatto mostra dei suoi stemmi infangati.
Pensate che cacca che sono!

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